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Paolo il Danese

Paolo il Danese

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Paolo il Danese - Un prete partigiano

Thomas Harder, Belfagor, anno LXIII n. 3 - 31 maggio 2008 (n. 375)

«Via Paolo il Danese» si chiama una strada in un grazioso quartiere di recente costruzione alla periferia meridionale di Parma. «Via Paolo il Danese»? Cercando il nome in uno stradario si trova l’aggiunta «Arndt Lauritzen», ma non sono molti i visitatori danesi cui questo dice qualcosa in più. Un italiano proveniente da un’altra città noterà che la strada si trova in mezzo a un quartiere dove strade e piazze prendono il nome da figure eroiche dell’antifascismo italiano e della Resistenza, ma non è probabile che annuisca riconoscendo «Paolo il Danese». Invece fra la gente di Parma – almeno fra le persone dotate di maggiore coscienza storica - «Paolo il Danese» è ben noto come liberatore della città. Lo si conosce come capo della prima brigata partigiana che entrò a Parma nelle prime ore del mattino del 26 aprile 1945, immediatamente dopo che le forze tedesche di occupazione avevano abbandonato la città, e otto ore prima dell’arrivo delle forze alleate. A Parma Lauritzen viene ricordato come un uomo che con il suo coraggio fisico e morale del tutto insolito e con la sua volontà fanatica dalle basi religiose di combattere l’assoluta malvagità del fascismo e del nazismo divenne una delle figure di comando più ispirate nella sanguinosa guerra di liberazione che infuriò fra i monti intorno a Parma dall’inverno 1943-44 fino alla fine di aprile del 1945.

Arndt Paul Richardt Lauritzen nacque a Copenaghen l’11 maggio 1915 e morì a parma il 25 ottobre 1978. Nei soli 63 anni della sua vita riuscì a essere monaco, ufficiale, sacerdote cattolico, partigiano, padre di fa,iglia, uomo d’affari e probabilmente a più riprese agente segreto. Durante la sua vita Lauritzen affrontò scelte così drammatiche e si mise volta per volta in situazioni così estreme e così estremamente pericolose che la maggior parte degli editori ragionevoli presumibilmente rifiuterebbe un romanzo su un uomo del genere considerandolo troppo improbabile, e consiglierebbe di suddividere la materia in due o tre storie diverse. Invece Lauritzen è un personaggio storico la cui famiglia ancora vive in Danimarca ein Italia, i cui compagni di combattimenti ancora in vita ancora hanno di lui un ricordo vivo, e la cui vita avventurosa può essere sufficientemente ricostruita grazie alle loro testimonianze supportate da diversi documenbti d’archivio e da un libro di memorie in italiano da lui lasciato alla sua morte in manoscritto, che la sua vedova e i suoi figli pubblicarono nel 1984.

Quando nel 1937 fu costretto a portare a termine il corso per ufficiali riservisti della fanteria (perché aveva l’esame di maturità e comunque fu considerato adatto), il coscritto Lauritzen scrisse la breve autobiografia che tutti i nuovi allievi ufficiali della scuola di Elsinore dovevano consegnare:

«L’11 maggio del 1915 Copenaghen si arricchì di un abitante. Ero io. La casa in cui trascorsi l’infanzia e una parte della giovinezza era una piccola casa del ceto medio, nella quale dovere e sobrietà venivano tenuti in gran conto. Dopo i primi sette anni dell’infanzia – dei quali ho solo pochi ricordi – un giorno fui mandato a scuola. Quello fu il primo vero giorno della mia vita, perché allora iniziò la continua lotta con il lavoro quotidiano. I miei genitori erano molto rigidi nell’esigere le mie prestazioni. Risultato: di andare a scuola ero proprio stufo. Frequentai prima la scuola comunale di Sølvgade, poi quella di Alsgade. Quegli anni sono mi appaiono come una serie infinita di giorni di sgobbate sui libri. Dalla quarta passai alla scuola media nella scuole di Nyboder. Solo nel quarto anno delle medie iniziai a nutrire interesse per la mia scuola, perché da allora si destò il mio interesse per gli studi teologici. Fu quello il motivo per cui dopo l’esame di scuola media entrai come allievo degli studi classici nel ginnasio della Borgedydsskolen.

Nei tre anni che vi trascorsi sarebbero accaduti grandi rivolgimenti nella mia convinzione religiosa. Glis tudi di filosofia della religione, storia della chiesa e critica della Bibbia mi resero scettico nei confronti della comune opinione delle cose qui da noi. Dopo diverse crisi e due anni di studi energici decisi di passare alla chiesa romana proprio quando mi stavo preparando all’esame di maturità».

Quando Arndt frequentava il secondo anno del ginnasio disse a suo apdre, Alfred Georg Lauritzen – che aveva una bottega di barbiere al numero 11 di Toldbodgade – che non solo aveva rinunciato ai suoi progetti di diventare pastore della chiesa danese, ma persino che desiderava convertirsi al cattolicesimo e farsi monaco. Al padre questo non piacque: «Allora puoi lasciare subito la scuola e andare a fare il garzone in bicicletta, ecco cosa puoi fare!». Ma Arndt ottenne ciò che voleva. Il giorno dopo il suo diciottesimo compleanno, il 12 maggio 1933, si convertì, e il 10 novembre Knud Ballin, il capellano della chiesa cattolica di Skt. Ansgar sulla Bredgade scriveva all’abate del convento benedettino di Clervaux in Lussemburgo: «Il giovane è sempre stato un buon esempio, e il suo desiderio di una vita contemplativa, la sua devozione e i suoi studi sembrano un’eccellente preparazione alla vita in una società monastica».

Ma l’opposizione di A.G.Lauritzen alla scelta di vita del figlio non era così accanita da impedirgli, sebbene non avesse mai preso le ferie dalla bottega di barbiere, di far visita ad Arndt in convento nell’estate del 1934. Al suo ritorno a casa disse a sua moglie Helga: «Va bene così. Arndt è contento e io sono contento». Entrambi i genitori cominciarono in seguito a seguire l’insegnamento della religione cattolica e nel dicembre del 1935 si convertirono. La sorella Aase, di 9 anni piùà giovane di Arndt, si era già convertita, e più tardi seguì la sorellina Bitten. Quando le due sorelle in seguito si sposarono, si convertirono anche i loro mariti, e oggi il figlio di Aase è un sacerdote cattolico.

Arndt Lauritzen visse come monaco nel convento in Lussemburgo fino allo scoppio della seconda Guerra Mondiale il 1° settembre del 1939. La sua vita in convento su interrotta solo da soggiorni in Germania e in Belgio, dove studiò teologia alle università di Treviri e Lovanio, da viaggi in cui accompagnò l’abate del convento, cui erano di grande aiuto le conoscenze linguistiche e la prodigiosa memoria del giovane danese, e poi dal servizio militare e dal corso come ufficiale riservista in Danimarca nel 1937-38. Nel suo periodo come monaco Lauritzen era in contatto con gli antinazisti cattolici tedeschi, molti dei quali furono vittime delle persecuzioni naziste. Vide il nazismo molto da vicino e fu testimone dei suoi attacchi agli ebrei e ai dissidenti. Questo gli diede forti motivazioni che più tardi lo avrebbero spinto a scegliere la spada invece che la croce. «Si rendeva conto» afferma il figlio maggiore Lorenzo, che fa l’uomo d’affari nella provincia di Parma, «che il cristianesimo in Europa era in pericolo, e lui doveva fare qualcosa».

Quando la Germania attaccò la Polonia, e la Gran Bretagna e la Francia dichiararono guerra alla Germania il 1° settembre 1939, Lauritzen tornò in Danimarca. In quel momento aveva completato la prima parte degli studi che lo preparavano al sacerdozio cattolico, ma come scriveva nel 1937 alla scuola per allievi ufficiali: «Sono sempre stato fermamente convinto che sia il dovere di ogni uomo mettersi a disposizione quando si tratta di difendere la libertà e gli interessi della nazione». Il 12 settembre fu nominato sottotenente della sua vecchia unità, l’11° Battaglione del 4° Reggimento, a Roskilde.

Prima che facesse così ritorno nell’esercito danese, Lauritzen aveva fatto però un tentativo per intervenire in maniera più diretta contro il nazismo: voleva andare in Polonia per combattere contro i tedeschi, ma questo pericoloso progetto fu sventato da suo padre con l’aiuto del capo della polizia Eigil Thune Jacobsen, che era un cliente abituale della bottega di barbiere di A.G.Lauritzen e buon amico della famiglia. Qualche anno dopo, quando Arndt divenne un capo partigiano in Italia e la Gestapo si interessò alla sua famiglia danese, Thune Jacobsen si rivelò nuovamente una conoscenza particolarmente utile.

Quando si presentò in servizio all’11° Battaglione, Lauritzen aveva ancora la tonsura, ma per il resto la sua convinzione religiosa non traspariva molto, com’era invece il caso della sua impetuosità e della sua capacità di essere sempre al centro. Fra i suoi amici della guarnigione c’era il tenente Per Winge, campione danese di tiro con la pistola. La vedova di Per Winge, Grete Winge, racconta: «I tenenti avevano la mensa proprio sotto l’alloggio del colonnello, e la moglie del colonnello non riusciva a sopportare tutto quel baccano, così ci alternavamo a organizzare la mensa per i tenenti ogni due giovedì. Arndt era affascinante, impetuoso – una sera gli evenne l’idea di fare una gara di tiro: mise una scatola di fiammiferi in piedi sulla sua pipa e gli altri dovevano colpirla mentre lui teneva un elenco telefonico dietro per catturare il proiettile. Così fece un paio di volte, ma poi non era più divertente: la scatole doveva stare sdraiata. Allora il proiettile la colpì in basso, la pipa prese un colpo e volò una scheggia di dente. Lui si limitò a sputarla e poi disse: “Continuate!”».

Il comandante del 4° Reggimento, Helge Bennike, è stato chiamato «il primo resistente danese». Questo bel titolo è dovuto al fatto che quando alle 7 del mattino del 9 aprile 1940 ebbe l’ordine di non opporsi alle forze tedesche che stavano occupando il paese, il colonnello scelse di non obbedire, pensando che il governo danese agisse così perché costretto, e che dunque fosse suo dovere combattere. Ma Bennike scelse di non sacrificare i suoi uomini in una battaglia simbolica per la caserma di Roskilde e comandò invece alle compagnie presenti dell’11° battaglione del reggimento di recarsi a Helsingør per passare da lì in Svezia, che era sicuro sarebbe stato il prossimo obiettivo dei tedeschi.

Le forze di Bennike, circa 200 uomini, giunsero a Helsingborg, sulla costa svedese, in tarda mattinata, con in testa la bandiera del 4° battaglione, portata dall’ufficiale Arndt Lauritzen. Uno dei compagni di Lauritzen nel viaggio in Svezia, l’allora tenente Kjeld Feilberg, dice della decisione di Bennike, che non tutti in Danimarca considerarono degna di ammirazione: «Alcuni affermarono che il colonnello Bennike aveva disertato la bandiera. Quando in seguito mi fu riferito risposi: “No, non è vero, ci siamo portati la bandiera».

Le forze danesi furono alloggiate nell’aeroporto di Ljungbyhed, a poco meno di 100 chilometri da Helsingborg. L’aeroporto era un sicuro obiettivo in caso di invasione tedesca, e gli uomini di Bennike rappresentarono un gradito supplemento alle forze locali svedesi. Per una settimana l’esercito svedese e gli uomini di Bennike rimasero col dito sul grilletto ad aspettare un attacco tedesco. Solo il 17 aprile si ritenne che il pericolo fosse scongiurato. Alla fine di aprile, quando fu nuovamente possibile viaggiare fra la Svezia e la Danimarca, il 70% delle forze danesi scelse di tornare a casa, mentre il resto, in gran parte personale di comando, scelse di rimanere per provare a unirsi agli alleati. Fra di loro c’erano i tenenti Lauritzen e Feilberg.

I due tenenti cercarono dapprima di raggiungere la Norvegia settentrionale attraverso la Finlandia per entrare a far parte dell’esercito norvegese, ma furono respinti alla frontiera finlandese. Poi si rivolsero agli addetti militari britannici e francesi a Stoccolma per cercare di essere arruolati. Non fu possibile, ma nel corso delle trattative Lauritzen e Feilberg ingannarono il tempo spiando due donne sospette che lavoravano all’ambasciata tedesca a Stoccolma e informarono gli addetti militari alleati e la polizia svedese dell’attività delle donne.

Se si deve credere a ciò che la famiglia italiana di Lauritzen e i suoi compagni partigiani – che riferiscono le sue affermazioni – raccontano della sua successiva attività spionistica a Roma, è plausibile che i suoi primi contatti con il servizio di informazione britannico avvennero all’ambasciata a Stoccolma.

Avendo esaurito le possibilità di raggiungere le zone di guerra dalla Svezia, Feilberg e Lauritzen tornarono in Danimarca. Feilberg il 23 giugno per riprendere servizio al 4° reggimento, dove insieme al colonnello Bennike si diede da fare a spostare armi dai magazzini delle caserme a nascondigli in giro per la Selandia centrale per usarle in seguito contro i tedeschi. Lauritzen tornò qualche settimana dopo per riprendere il suo percorso religioso come segretario del vescovo cattolico Theodor Suhr, che come lui era benedettino ed era vissuto a Clervaux.

Attraverso un altro amico ufficiale e compagno del viaggio in Svezia, il fratello minore di Kjeld Feilberg Thorkild, il segretario del vescovo entrò nella resistenza e fra l’altro aiutò Thorkild Feilberg a progettare un attentato contro l’ufficio distrettuale del partito nazista danese, il DNSAP, a Kultorvet, nel centro di Copenaghen. Per poter spiare i nazisti danesi Lauritzen si iscrisse al DNSAP. Sua sorella Aase Nielsen racconta: «Una volta tornai a casa e mio fratello era sdraiato sul letto e leggeva “Mein Kampf”. Io gli dissi: “Che diavolo stai leggendo, Arndt?!”. “Bisogna sapere come è organizzato il nemico” rispose lui. Alzandosi sollevò il cuscino, e lì sotto c’era il suo revolver. “Devi stare attento che mamma e papà non lo vedano… gli prenderebbe un colpo!”. E allora lui disse: “Di questo non devi preoccuparti”. Doveva andare a tenere una conferenza al DNSAP. Io ero scossa, ma naturalmente non dissi niente. Non potevo immischiarmi».

Aase Nielsen racconta anche che suo fratello, insieme al vescovo Suhr, fece visita a Flemming Juncker, membro della resistenza. Purtroppo non si sa di cosa abbiano parlato, ma è noto che Suhr non aveva alcuna simpatia per il nazismo, e che non gli era estraneo il pensiero, come non lo era a Lauritzen, di combattere l’ingiustizia con le armi. In una lettera alla «Kritisk Revue» nel dicembre del 1942 viene criticato per aver detto che «non si può essere cattolici e allo stesso tempo sostenitori del nazionalsocialismo», e nel gennaio del 1940 al «Nationaltidende» che gli chiedeva se la chiesa cattolica credeva che si potesse creare pace eterna sulla terra rispose: «No, ci sono casi in cui bisogna prendere le armi … il pacifismo che ci nega questo diritto è privo di qualsiasi fondamente realistico».

Il vescovo Suhr, che è morto nel 1997 all’età di 101 anni, ebbe un ruolo importante nella vita di Arndt Lauritzen. Fu Suhr a presenziare nel dicembre del 1940 alla consacrazione ai primi due dei quattro “ordini minori”, che a quel tempo precedevano l’ordinazione al sacerdozio cattolico, probabilmente coprì la sua attività nella resistenza e lo aiutò almeno economicamente e con importanti contatti quando Lauritzen nell’ottobre del 1941 andò a Roma per completare i suoi studi e iniziare il capitolo della sua vita che lo portò ad avere il suo nome da partigiano sulla targa di una strada a Parma.

 

«È bello, ed è pieno di malinconia. Qualcosa resta e qualcosa scompare. Siamo fieri, dopo aver raggiunto un traguardo, ma rimane il dolore per coloro che abbiamo perduto per strada, e per coloro che perderemo presto. È come dopo aver raggiunto una certa maturità nella vita. Ci si lascia alle spalle i ricordi dell’infanzia, le memorie della prima giovinezza, e si prende la strada che ci è stata assegnata dalla Provvidenza. Riprendo una vita sconosciuta con nomi e volti indimenticabili impressi nel mio cuore».

 

Così scriveva il comandante Paolo ai suoi uomini nel giornale «Patriota» che la 3a brigata partigiana Julia pubblicava nel maggio del 1945. La guerra era finita, Hitler e Mussolini erano morti e le loro dittature erano state schiacciate, e nelle prime ore del mattino del 26 aprile la 3a Julia, con in testa il suo comandante danese Arndt Paul Lauritzen, «Paolo il Danese», era entrata a Parma. La maggior parte della guarnigione tedesca in quel momento aveva abbandonato la città, ma i cecchini fascisti resistevano ancora. Nel corso della giornata l’ultima resistenza fu sconfitta, e insieme a un altro paio di brigate partigiane la 3a Julia assicurava la pace e l’ordine mentre le forze alleate – britannici, americani e brasiliani – attraversavano il fiume Parma sui ponti al centro della città per continuare l’avanzata verso nord alle calcagna dei tedeschi in rotta.

Arndt Lauritzen era giunto a Parma da Roma nel settembre del 1943, dopo che il Regno d’Italia aveva capitolato di fronte agli alleati e i tedeschi avevano preso il potere nella capitale e nel resto del paese a nord del fronte. In quel momento Lauritzen soggiornava a Roma da quasi due anni, prima come studente all’università Gregoriana e dopo la sua ordinazione – il 20 dicembre 1942 – come sacerdote cattolico. A Roma Lauritzen abitò dapprima nel convento benedettino di San Girolamo, dove il suo protettore Theodor Suhr era stato priore prima di diventare vescovo di Copenaghen, ma poco tempo dopo si trasferì con altri tre o quattro studenti in un piccolo appartamento legato alla Procura Generale dei Padri Crocigeri in via del Velabro. «Forse» dice sua sorella Aase Nielsen, «perché aveva cominciato a dubitare della sua vocazione monacale».

Lauritzen e un gruppo di altri giovani studenti e artisti danesi erano ospiti frequenti del pittore Tyge Bendix e di sua moglie Lili Henriques nella loro accogliente casa di Piazza del Popolo. Lili Henriques era ebrea e suo marito era per metà ebreo, ma quando le persecuzioni dei tedeschi e delle autorità fasciste cominciarono davvero a farsi minacciose decisero di far convertire i loro figli al cattolicesimo. «Padre Lauro» li istruì nella religione. La figlia, Pia Nellemose, ricorda ancora il suo entusiasmo per Lauritzen. «Era così bello, ed era un uomo così dolce». Ma improvvisamente un giorno Padre Lauro era scomparso. «Non lo vedemmo pià, e solo dopo la liberazione i miei genitori vennero a sapere che era diventato partigiano e si era sposato».

La repentina scomparsa di Lauritzen dal campo visivo della famiglia Bendix è forse collegata a uno degli enigmi che l’uomo ha lasciato dietro di sé. A Roma aveva altri compiti oltre a quello di occuparsi di faccende di chiesa?

Se dobbiamo credere alle memorie di Lauritzen pubblicate postume, che non vengono confermate solo dalla sua famiglia, ma anche da alcuni dei partigiani che lo conobbero subito dopo il suo arrivo nella zona di Parma, il danese era un agente britannico. Ci sono storie che parlano di un suo soggiorno nel grande convento benedettino di Montecassino, dove Lauritzen studiava alternativamente la dottrina di San Tommaso d’Aquino nella biblioteca del convento e il traffico ferroviario militare che passava proprio sotto il monte. Si racconta anche di un complotto insieme a un cardinale antifascista (il francese Eugène Tisserant) e di un tentativo di fotografare una postazione di artiglieria su uno dei colli a ovest di Roma, che andò a finire con l’arresto dei compagni di Lauritzen mentre lui riuscì a sfuggire per un pelo alla cattura.

Per ora mancano documenti su questo aspetto dell’attività di Lauritzen, ma fa parte del quadro della situazione la circostanza che il vescovo Suhr durante l’occupazione cercò di sopperire alla carenza di sacerdoti in Danimarca richiamando dall’estero sacerdoti danesi. Ne fece tornare a casa sette, uno persino nel 1944, ma Lauritzen, che egli peraltro conosceva e stimava, non era fra loro. Forse non fu possibile solo per motivi pratici; forse il vescovo non ci provò affatto perché sapeva che Lauritzen era occupato da altre cose a Roma; forse Lauritzen rifiutò perché ciò che stava facendo in Italia era più importante che riempire un posto vuoto nella chiesa cattolica danese.

Il vescovo Suhr aveva un’ampia rete di contatti nei ceti più alti danesi ed europei. Fra i suoi amici c’era Elsa Fischer, figlia di un avvocato, che dopo una gioventù passata fra le feste dell’Associazione Studentesca, la scherma e l’equitazione ad alto livello nel 1925 si sposò con un diplomatico italiano, il marchese Antonio Soragna-Tarasconi. Soragna-Tarasconi era stato ambasciatore a Stoccolma prima di abbandonare volontariamente il servizio per protesta contro la politica estera di Mussolini. Durante una delle sue visite a Roma Suhr presentò Lauritzen a Elsa Fischer e la pregò di occuparsi di lui se ne avesse avuto bisogno. Ne ebbe bisogno nell’autunno del 1943, e così Elsa Fischer e suo marito lo assunsero come precettore del loro figlio Lupo Luigi.

Lauritzen si trasferì nella villa della famiglia Soragna-Tarasconi a Vigatto, cinque chilometri a sud di Parma, dove oltre che precettore era vicario del parroco nella locale chiesa, che sorge proprio di fronte alla villa.

Accanto alla chiesa abita Marco Zanlari, che con il soprannome di «Aquila» era uno degli uomini di fiducia di Lauritzen nella 3a Julia. Lui e il vicino Lupo Soragna-Tarasconi, che fino alla morte nel 2006 vive ancora nella villa in cui Lauritzen gli insegnava il danese, lo aiutava a fare i compiti e lo allenava al pugilato, raccontano quasi a una voce di Lauritzen: «Aveva una incredibile capacità di entrare in contatto con le persone. Non si poteva fare a meno di volergli bene». Zanlari racconta di un contadino della zona che non metteva piede in chiesa da 25 anni e si lasciò convincere ad andare a messa e confessarsi con Lauritzen.

«Io e Paolo entrammo presto in confidenza» racconta Zanlari. «Ci incontravamo qui, intorno al mio tavolo della cucina, e noi sapevamo tutti – tutti gli antifascisti di Vigatto – che non era solo un prete, ma che il marchese copriva il suo lavoro sotterraneo».

In cosa consistesse di preciso il lavoro sotterraneo di Lauritzen rimane ancora incerto, ma fra l’altro convinse alcuni soldati austriaci di stanza nella zona a disertare e li aiutò a fuggire in montagna, dove si unirono ai partigiani, come risulta da un rapporto sull’attività del danese scritto dal maggiore britannico del SOE A. C. Holland nel maggio del 1945. Holland era radiotecnico ed era stato paracadutato dietro le linee tedesche per fungere da collegamento fra i partigiani e le forze alleate, e raccoglieva notizie da informatori di tutta la provincia di Parma.

Nel luglio del 1944 Lauritzen fu informato da un ufficiale tedesco antinazista che il Sicherheitsdienst era sulle sue tracce. L’avvertimento arrivò mentre Lauritzen stava pranzando con il marchese e Elsa Fischer. Il danese saltò su, borbottò uno «scusate» e scomparve uscendo dalla finestra. Il marchese fece subito togliere dalla servitù il coperto del precettore e ordinò che tutti negassero la sua presenza a pranzo. Quando arrivarono i tedeschi, le tracce erano state cancellate. Per tre giorni e tre notti Lauritzen rimase nascosto in un campo di mais dietro il parco della villa, finché il giardiniere della famiglia con l’aiuto di altri uomini portò al riparo l’uomo sfinito e gli procurò da mangiare, da bere e l’assistenza di un medico.

Quando Lauritzen si fu sufficientemente ripreso si unì a un gruppo di 20-25 giovani, fra i quali Marco «Aquila» Zanlari, che aveva deciso di diventare partigiano. Lauritzen e i suoi compagni entrarono nella brigata social-liberale 4a Giustizia e Libertà, i cui membri impararono presto ad apprezzare il loro compagno straniero. «Paolo il Danese» fu promosso prima comandante di battaglione, con una forza di 100 uomini, e poi divenne capo di stato maggiore della brigata. Quando dei disaccordi interni fra gli elementi cattolici e quelli social-liberali della brigata a gennaio portarono alla scissione della 4a Giustizia e Libertà e alla formazione della brigata autonoma 3a Julia, Lauritzen divenne comandante della nuova unità, composta da circa 500 uomini.

L’ufficiale Lauritzen era molto più professionale della maggior parte dei suoi compagni, e inoltre era molto più deciso e contrario ai compromessi. Nelle sue memoriesi descrive come animato da un odio per il nazismo cui nemmeno la sua mentalità cristianae il suo amore per la cultura tedesca talvotla riuscivano a impedire di trasformarsi in odio per i singoli tedeschi. Di lui è stato detto che combatteva il nazismo con la stessa durezza e la stessa freddezza dimostrata dai suoi nemici delle SS. Allo stesso tempo insisteva molto più di altri capi partigiani sul fatto che i nemici feriti e prigionieri fossero trattati secondo la legge di guerra, e manteneva con il pugno di ferro la disciplina fra i suoi uomini facendone giustiziare diversi per saccheggio e altri delitti contro lapopolazione civile. Il suo contatto inglese, il maggiore Holland, lo descriveva come un «idealista ispirato che era in grado di far valere i suoiideali in tutta la brigata», e come «garante della giustizia e dei diritti di tutti». Lauritzen laquidava con grande coerenza i delatori, e dei partigiani prigionieri che erano stati piegati dalle torture del Sicherheitsdienst e avevano dato informazioni ai tedeschi diceva che «sarebbe stato meglio se fossero morti».

Ma i vecchi compagni di Lauritzen ricordano anche la sua dolcezza. Il veterinario in pensione Ennio «Condor» Biasetti, che era responsabile dei rifornimenti nella 3a Julia, ricorda «tutte le volte che gli avevo appena consegnato un paio di stivali nuovi e lui il giorno dopo si presentava scalzo o con un paio di vecchie scarpe consumate: “Ho incontrato uno” diceva, “che ne aveva più bisogno di me”».

I tedeschi tenevano d’occhio l’insolito capo partigiano e in più occasioni gli fecero capire che sapevano chi era, e chi era la sua famiglia in Danimarca. Nell’autunno del 1944 il padre di Arndt Lauritzen ricevette la visita del suo buon amico e cliente della bottega di barbiere, il capo della polizia Eigil Thune Jacobsen, che era venuto a sapere che la Gestapo si interessava alla famiglia di Lauritzen. La famiglia entrò in una parziale clandestinità ed evitò episodi spiacevoli, ma fino alla fine della guerra «Paolo il Danese» visse nel timore che i tedeschi arrestassero i suoi cari.

Uno degli episodi più famosi del periodo in cui Lauritzen era partigiano fu l’attacco a una caserma tedesca nel paesino di montagna di Lesignano Bagni il 20 settembre del 1944. L’attacco fu un punto cruciale nella vita del danese, che lo descrisse così in un’intervista pubblicata nel «Nationaltidende» l’11 maggio del 1952: «Avevo un gruppo di russi – 37 georgiani – che i tedeschi avevano utilizzato come salmeristi, ma avevano ucciso i loro ufficiali ed erano fuggiti. Volevo metterli alla prova prima di farli combattere insieme ai miei uomini, e con quei 37 andai all’attacco di una caserma. Qui avvenne l’episodio in seguito al quale non potei più essere sacerdote – ovvero: il primo episodio. Altri episodi dello stesso tipo seguirono. [...] Non è una crisi intellettuale, sono cattolico come sono sempre stato, ma la catena di avvenimenti contraddittori che ne seguì ha lasciato tracce profonde nel mio spirito. Durante lo scontro a fuoco nel cortile della caserma – eravamo entrati con dei mezzi tedeschi rubati, ed eravamo stati accolti con tutti gli onori – mirai su un tedesco ma non sparai. Era mia intenzione fargli dono della vita. Quando la mia attenzione fu attirata altrove, stava quasi per spararmi. Non posso fargliene una colpa: era un suo diritto, visto che non lo avevo disarmato. Lo anticipai e gli soarai. Più tardi mi chinai sull’uomo morente e gli chiesi se era cattolico. Lo era, e desiderava l’assoluzione. Quando stavo per allontanarmi mi sparò e il proiettile mi sfiorò l’anca, così fui costretto a ucciderlo. Allora mi resi conto che non potevo più essere sacerdote. L’episodio mi aveva fatto una profonda impressione – insieme a tutte le altre contraddizioni che avevo incontrato».

Per il suo contributo a Lesignano, dopo la guerra Lauritzen ricevette la medaglia d’argento al Valor Militare, che è stata assegnata a pochissimi stranieri. Nella motivazione è detto fra l’altro: «Poiché il nemico opponeva furiosa resistenza, Lauritzen uscì dal riparo per mostrare ai suoi uomini dove si trovavano esattamente le mitragliatrici nemiche, e fu gravemente ferito. Senza dar peso alla perdita di sangue continuò a incitare i suoi uomini e si ritirò solo dopo tre ore di combattimento durante le quali furono inflitte gravi perdite al nemico».

Lauritzen non perse un braccio solamente grazie al medico della brigata, il dottor Giovanni «Celso» Capretti, che intervenne efficacemente in pronto soccorso con i primitivi mezzi che aveva a disposizione, e più tardi eseguì su di lui un intervento chirurgico. Nonostante l’efficace assistenza, il danese soffrì per tutta la vita una rigidità dell’articolazione della mano destra. «Ma la ferita non gli impedì di svolgere il suo dovere, anche se per molti mesi portò il braccio al collo e patì forti dolori» scriveva il maggior Holland nel suo rapporto, e continuava: «Più volte Lauritzen chiese l’autorizzazione a espatriare per unirsi al movimento di resistenza danese, ma gli fu sempre sconsigliato perché si riteneva che fra i partigiani intorno a Parma potesse essere molto più utile che in Danimarca».

Nella primavera del 1945 il servizio informazioni del movimento di resistenza mandò a Lauritzen un agente segreto con il nome di copertura di «Teresa» per potergli fornire informazioni da Parma che potevano essere utilizzate in parte dalla 3a Julia, in parte comunicate per la missione di Holland. «Teresa» era il funzionario di banca Rosita, che in bicicletta faceva la spola fra Parma e il loro punto di incontro fra le montagne. La cosa continuò solo per pochi mesi, ma lasciò il segno: subito dopo la liberazione Rosita fece visita al nuovo quartier generale della brigata nell’ufficio postale di Parma per trovare «Paolo», e dal quel momento rimasero insieme per tutta la vita.

Arndt e Rosita si sposarono a Milano nell’agosto del 1945. La coppia ebbe tre figli in rapida successione e si stabilì a Glostrup, nei pressi di Copenaghen. Arndt trovò un lavoro in una fabbrica di mattoni come una sorta di collaboratore dell’ufficio esportazioni e segretario di direzione, mentre Rosita si occupava dell’ufficio turistico italiano a Copenaghen.

Nel 1949 Arndt e Rosita abitarono per un periodo a Berlino, dove l’uomo ufficialmente vendeva generi alimentari, ma probabilmente era in realtà agente di un «servizoo informazioni» danese». Ma Rosita non sa di quale servizio si trattasse o cosa facesse davvero suo marito: «Quelle cose non me le raccontava.., per motivi di sicurezza».

Nel 1953 la famiglia si trasferì di nuovo in Italia e iniziò quella che in pratica era una carriera comune: Arndt lavorava come interprete free lance e tuttofare per la lega europea delle associazioni dei fabbricanti di mattoni, e Rosita lo aiutava con il lavoro di segreteria. Poi segurono lavori simili per una lega europea di fabbricanti di impermeabili e per la Fiera di Ancona e affari di vario genere per proprio conto, fra l’altro una casa editrice e una tipografia, e il lavoro per la Bormioli, per la quale la coppia acquistava sabbia in Africa. Poco prima della sua morte Lauritzen era diventato direttore della locale stazione Radio Parma e della televisione Parma TV 21. Anche questo lavoro era svolto da lui e da Rosita insieme. «Paolo il Danese» morì di malattia il 26 ottobre 1978, all’età di 63 anni.

Rosita Lauritzen e i suoi tre figli e altrettanti nipoti vivono oggi in una cittadina nella provincia di Parma. Nell’anniversario della liberazione di Parma nel 1990 il sindaco della città le ha consegnato una targa d’argento in memoria dell’attività di suo marito nel 1944-45 e in particolare per quel giorno in cui, poco dopo la liberazione, come respinsabile della prigione della città il danese si mise davanti al portone del carcere per fermare la massa che voleva linciare i fascisti che ora avevo preso il posto degli antifascisti nelle celle. Mentre aspettava che «Aquila» arrivasse con i rinforzi, Lauritzen tenne in scacco la folla con la sua pistola gridando che per farsi giustizia da soli sarebbero dovuti passare sul suo cadavere. Rosita ricorda ancora come Piazza Garibaldi risuonava di grida ritmate quando le fu consegnata la targa: «Paolo, Paolo, Paolo...!».

 

(Tradotto dal danese da Bruno Berni)

Articolo su Paolo il Danese, Il Venerdi di Repubblica, 2006

Un brano di Den danske partisan (in inglese)

La guerra di Anders Lassen, Da Fernando Pò a Comacchio

Recensioni di Anders Lassens krig (in inglese)

Alcuni brani di Anders Lassens krig (in inglese)