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La "mia Roma"

La "mia Roma"

M'accorgo talvolta di pensare alla "mia infanzia romana", sebbene in realtà una mia  “infanzia romana” non abbia mai avuto luogo. Ciò che invece veramente accadde, fu che da bambino ebbi la fortuna di fare ogni anno sino all'adolescenza delle lunghe e frequenti vacanze in Italia, di solito in compagnia delle stesse persone: dalla zia Titì col marito Michele nel loro appartamento a Milano o nella loro casa di Cagliari, e dai miei nonni materni con la zia Anna Rosa e il marito Antonio nei loro appartamenti a Roma o a Nuoro, la loro città d’origine.

I lunghi, ricorrenti soggiorni in questi luoghi e con queste persone, nel ricordo mi hanno lasciato l'impressione di un unico periodo ininterrotto, trascorso soprattutto nell'appartamento dei nonni in via Borelli, vicino alla Città Universitaria, nel bel quartiere Nomentano sorto negli anni ´30 e nel primo dopoguerra.

L’appartamento dei nonni era piuttosto spazioso ma io ne ricordo soprattutto il soggiorno un po' buio e la luminosa camera di nonna Graziella che era una grande fumatrice e doveva stare quasi sempre a letto a causa di una cardiopatia.Quando non era occupata a raccontarci le avventure che noi bambini avevamo vissuto insieme a lei su una stella lontana dove eravamo quasi di casa, passava il suo tempo leggendo dei Gialli Mondadori o dei romanzi moderni italiani e francesi, oppure in compagnia degli amici e parenti che spesso venivano a trovarla.  

Come in molti altri appartamenti italiani di quell'epoca, la spina dorsale di quello dei nonni era un lungo andito che collegava la massiccia porta d'ingresso col soggiorno e che, nel percorso, dava accesso alle altre stanze e ai servizi. Quest’andito aveva un pavimento di marmo deliziosamente fresco e liscio che era una magnifica pista per le mie automobiline, e iniziava con una piccola sala d'aspetto che nonno Dino si era adibito a ufficio. Il tavolo da lavoro stava vicino alla finestra sul cortile ed era coperto di rotoli di carta traslucida e da disegno, di grandi squadre e tiralinee di legno scuro, di compassi, di boccali affollati di grosse, morbide matite rosse e azzurre, di barattoli di colla e  di ogni genere d'altri interessantissimi arnesi. Su un lato del tavolo c'era il gigantesco atlante mondiale del Touring Club Italiano con le sue carte incredibilmente belle e indicibilmente dettagliate e, a parte, il volume-indice con diverse centinaia di migliaia di toponimi. Una splendida opera, molto stimolante per la mia fantasia e di cui mi affrettai a comprare un esemplare quando, molti anni più tardi, venne ristampata in un’edizione aggiornata.

Di ciò che nonno - ufficiale d’artiglieria durante la Prima Guerra Mondiale, combattente antifascista nella Guerra di Spagna, profugo negli Stati Uniti dal 1939 al 1945, ma anche ingegnere, speleologo e archeologo - facesse di tutti quegli oggetti sul suo tavolo da lavoro non ne avevo un'idea precisa. Può essere che nonno fosse spesso assente e, ad ogni modo, aveva un carattere brusco e impaziente che, nonostante il suo indiscutibile affetto, rendeva difficile la comunicazione tra lui e noi bambini. Forse per questo,  l'immagine che ho di lui nei miei ricordi di quegli anni è piuttosto imprecisa, fatta eccezione per qualche passeggiata - una, due, molte? – durante la quale mi condusse a visitare Castel Sant'Angelo e mi comunicò il suo amore per la storia e l'archeologia.

Sull'altro lato del pianerottolo nella scala di marmo bianco dalle pareti grigio-chiaro e l'ascensore il cui meccanismo doveva essere alimentato con una moneta da dieci lire per ogni salita e per ogni discesa, abitava zia Anna Rosa col marito Antonio Dore che era un po’ più giovane dei miei nonni e che per tutta la vita era stato comunista e sindacalista. Da ragazzo aveva conosciuto Antonio Gramsci e durante il fascismo aveva passato diversi anni al confino nell’isola di Lipari e altrove. Nel 1944, dopo la caduta del fascismo, era stato il primo segretario e organizzatore del partito comunista in Sardegna, e negli anni ’50 e ’60 aveva lavorato a Venezia e a Bologna per il sindacato dei tipografi e come funzionario del partito. Più tardi fu l’amato sindaco di Olzai, il suo paese d’origine nella montagna sarda. Quando nel 1989 il PCI si sciolse e risorse sotto la forma e il nome del socialdemocratico PDS che poi divenne l’attuale PD, fu tra coloro che aderirono al nuovo partito comunista ortodosso, Rifondazione Comunista

Da bambino non sapevo molto della carriera politica di Antonio. Sapevo però che negli ultimi anni della guerra, quando la carestia in Sardegna era estrema, aveva organizzato piccoli gruppi "d'appropriazione proletaria" che aveva personalmente guidato all'assalto delle cantine dei suoi stessi parenti proprietari, che si erano visti costretti a permettere che Antonio e i suoi combattenti rivoluzionari se ne andassero con le loro provviste di salsicce, prosciutti e  formaggio. Ciò non gli aveva impedito di sposare Anna Rosa, membro di una di quelle importanti famiglie. Per me Antonio era prima di tutto lo zio simpatico che somigliava a Fred Astaire nei suoi eleganti abiti estivi chiari e il cappello di paglia, che ci raccontava con passione di tutti i viaggi che avrebbe voluto fare, e che ogni tanto diceva delle cose che non sentivo dire da nessun altri, per esempio che i soli paesaggi veramente belli erano quelli plasmati dal lavoro dell'uomo.

Da ragazza Anna Rosa era stata appassionata tennista e cavallerizza. Cosa un po’ difficile da immaginare vedendo la rotondetta matrona in cui si era trasformata. Mi trattenevo volentieri in cucina insieme a lei, senza però partecipare al lavoro che non era considerato un’occupazione adatta a un ragazzo. Ma passai molte ore a osservare come si preparavano le  sebadas a base di formaggio sardo fresco e le squisite  cotolette alla milanese che poi venivano servite con profumate fette di limone. Spesso la accompagnavo quando andava a fare la spesa nel  mercato coperto dove le massaie del quartiere passavano una parte delle loro mattine a scegliere le pesche più profumate, la carne di vitello più fresca, il prezzemolo più bello, etc.  Quelle escursioni furono una delle molte cose di cui sentivo nostalgia quando tornavo a Copenaghen.

La “mia infanzia romana” fu il mio primo incontro con una vera grande città dove si sentiva un’attività, un dramma e tutto sommato un ritmo veloce di vita  che non ritrovavo a Copenaghen e che, nel confronto, trasformava in una delusione ogni mio ritorno a casa, e aggravava la solita impressione di vuoto del dopo-vacanze.

Quando Inger, la mia zia paterna, negli anni ´70 ebbe un incarico all'ambasciata danese a Roma, ebbi l'occasione di rivedere la città da nuove angolazioni. Una di queste fu il suo appartamento in Via del Nuoto, nell’elegante quartiere moderno a Nord di Ponte Milvio e del Foro Italico. A differenza di via Borelli, che era una classica strada di palazzi d’abitazione a molti piani e con molti appartamenti, e i cui androni davano direttamente sul marcipiede dove si aprivano anche gli accessi a piccoli cortili di servizio e i negozi (... all’angolo il grande bar dove qualche volta venivo mandato a prendere le sigarette – MS e Nazionali – per nonna e per la zia Caterina, e dove si potevano comprare anche i cornetti ripieni di crema, e i bei modellini d’automobili e le pistole giocattolo... poi la pizzeria che vendeva la pizza a metri...), Via del Nuoto e tutto il quartiere intorno era costituito di palazzine, cioè edifici di 4-5 piani immersi nel verde.

Il quartiere, già inaugurato sotto il fascismo, era stato completato negli anni ’50 e ’60 in una zona che sino ad allora era stata quasi soltanto  rurale con sparsi, piccoli  nuclei abitati, vigneti e pascoli. I nomi delle strade - Via del Nuoto, Via degli Azzurri d’Italia, Via della Maratona, via del Golf, Via dell’Alpinismo, etc. - si richiamavano alla vicinanza col Foro Italico e al fatto che il quartiere era stato in gran parte costruito in occasione delle Olimpiadi romane del 1960.L’appartamento di Inger, al primo piano, era di circa 200 mq. e aveva una terrazza di 300 mq. dove le palme crescevano nei grandi vasi e dove si trovavano divani-altalena e tutto ciò che ci si aspetta per una gradevole vita fuori porta. La terrazza era un ottimo luogo nel quale riposare, il pomeriggio, dopo le lunghe camminate in città.

Per mezzo di Inger feci conoscenza di altre zone e altri aspetti della vita romana estranei alla mia famiglia materna. Fra le gite memorabili insieme a lei ci fu la visita al Club del Golf dell’Aquasanta nella zona Sud della città oltre l’Appia Nuova. Lì gli autisti aspettavano, seduti nelle auto blu che erano i simboli più appariscenti dell’importanza dei loro datori di lavoro, ministri o importanti politici e funzionari che intanto giocavano al golf o curavano le loro relazioni d’affari nel bar o al ristorante del club. Fu questo il mio primo esotico incontro con la Roma delle classi privilegiate.  

Una gita scolastica di cui da liceale fui tra i promotori nella pasqua del 1977, e di cui mi ero assunto una specie di ruolo di guida fu forse - a parte tante altre memorabili cose - il mio primo tentativo di conoscere e far conoscere ad altri in modo più sistematico la storia e la topografia della città. Fu in quegli anni che cominciai la miei collezione di  libri su Roma. In principio le mie letture erano guidate da ciò che Inger e altri membri della famiglia mi regalavano per il compleanno o per Natale, come il bellissimo volume Roms fontæner ( Fontane di Roma) di H.V.Morton e la gradevole serie di Carl Ankerfeldt: Romerske hemmeligheder, Romernes Rom, Romerske mærkeværdigheder, etc. (Segreti romani, La Roma dei Romani, Curiosità romane, etc.) ed altri libri che per caso trovavo negli scaffali di casa.

Fra i miei ricordi più lontani c’è il volume Rom i storhedstiden (Roma all’epoca della sua grandezza) (Carit Andersen Forlag,1963) i cui articoli di divulgazione scientifica e le “immagini d’epoca”, insieme al  ricchissimo materiale illustrativo sotto forma di fotografie e soprattutto di modellini e ricostruzioni del Museo della civiltà romana, rendevano oltremodo vive la metropoli antica e tutta la cultura romana.

Fra i miei libri di quegli anni c’è pure Om ni reser til Rom (Se andate a Roma) (1951) dell’umorista svedese Sigge Hommerberg, che inizia con un grazioso benvenuto: “Egregi Signori! In realtà avrei  preferito accogliervi alla stazione di Roma con dei fiori, poi invece mi è venuta  voglia di venirvi incontro alla frontiera con qualche piccolo consiglio.”

... e – di tutt’altro calibro – ricordo  il libro dello storico d’arte Arnaldo Bruschi sul genio rinascimentale Donato Bramante (Bramante, Laterza, 1973) e l’eruditissimo Roma Barocca dell’architetto e storico dell’architettura Paolo Portoghesi.

Non pretendo di ricordare moltissimo di ciò che lessi nei libri del Bruschi e del Portoghesi, ma non ho alcun dubbio che la loro lettura contribuì allora a svegliare la mia curiositá su quegli argomenti, e gettò le basi per altre successive letture e riflessioni. Fu anche in quegli anni che il mio compagno di scuola e amico Hans Scheving, col quale in seguito scrissi diversi libri su Roma, servendosi d’una fotocopiatrice nello studio d’un architetto dove lavorava fece una copia in bianco e nero di 90x60 cm. della mappa di Roma della grande guida del Touring Club Italiano che a quei tempi era la nostra Bibbia. Su quella copia io tracciai mano mano con dei pennarelli di diversi colori le strade e le zone della città sulle quali mi imbattevo durante le mie disordinate letture. Fu un lavoro faticoso il cui risultato non fu del tutto evidente, ma fu interessante e istruttivo farlo e spero di aver conservato quella mappa. Chissà dove.

Nonna Graziella era credente e ricordo che nella sua camera da letto c’era un crocefisso che mi faceva molta paura. Ma la religione non aveva un gran peso nella vita di famiglia. Ciò nonostante il fatto stesso di essere a Roma, dove la chiesa cattolica è presente ovunque nelle strade e nelle conversazioni della gente, e più tardi naturalmente lo studio della storia di Roma, svegliarono inevitabilmente il mio interesse per la religione, la sua importanza e le sue diverse espressioni. Quando il 6 agosto del 1978 (io allora avevo appena compiuto i 18 anni) morì Paolo VI, interruppi un viaggio interrail in Grecia per volare a Roma con Olympic Airlines e, di nuovo ospite della zia Inger, per assistere ai funerali del Papa. Di stare in Piazza San Pietro e assistere a quell’avvenimento storico fu per me sicuramente un’esperienza importante che però diminuì un po’ di valore quando il successore di Paolo VI, Giovanni Paolo 1, morì dopo aver occupato per soli 33 giorni il trono pontificio.

Le due elezioni papali del 1978 vennero descritte con cognizione di causa ed in modo molto divertente dal gesuita americano, collaboratore di Playboy, Andrew M.Greeley nel suo The Making of the Popes, The Politics of Intrigue in the Vatican  (Fare i Papi, La politica d’intrigo in Vaticano), che uscì già nel 1979. Il libro del Greeley sul papato moderno e le sue dimensioni politiche aprì un nuovo capitolo del mio interesse per Roma e l’Italia, e da allora per me è diventato sempre più chiaro che non ci si può interessare seriamente di Roma o dell’Italia senza in qualche modo e misura  occuparsi  anche della Chiesa cattolica come fenomeno religioso, culturale e politico.

Persino le obbligatorie visite turistiche alle chiese acquistano molto più senso se le si compiono ricordando che le chiese sono dei luoghi di culto e non solo delle opere architettoniche e d’arte. Anche la comprensione dei loro interni, arredi e ornamenti cambia se li si osservano non come una specie di museo ma come cornici d’un servizio religioso. E questo vale per San Pietro come per le chiese moderne nei quartieri  residenziali intorno al centro storico. Così, sebbene insieme alla mia famiglia ci fossi già stato innumerevoli volte, mi fece una grande impressione trovarmi in Piazza San Pietro il giorno di Pasqua di quest’anno, insieme ad altre 150.000 persone, per vedere e sentire il Papa che parlava dai maxischermi, e ricevere il suo saluto pasquale in una incredibile quantità di lingue, compreso il mongolo, lo svedese e il letzeburgisco. E poi ascoltare il concerto che seguì dell’orchestra del Corpo dei Carabinieri che suonarono, fra l’altro, l’Inno di Mameli e poi - per motivi che ancora non mi sono spiegato - di un’orchestra militare francese che suonò la Marsigliese.

Nel 1978 iniziai i miei studi di storia all’Università di Copenaghen e un corso di storia romana da Cesare a Nerone aggiunse nuovi approfondimenti e dimensioni al mio interesse per questa inesauribile città. Nel 1980, un viaggio di studi della facoltà di storia guidato dal professor Jens Skydsgaard, mi servì come insegnamento pratico sullo stretto nesso pedagogico e narrativo che c’è tra la topografia di una città, la sua storia e le storie. Il giorno anniversario della morte di Cesare, un gruppo di noi studenti mangiò insieme al professore in uno dei due-tre ristoranti nei pressi di Campo de' Fiori che è situato sui resti del teatro di Pompeo e che mostra le colonne macchiate del sangue del dittatore. Durante la passeggiata che seguì, il professore saltò sul radiatore di una macchina parcheggiata e, dopo aver proclamato: "Questo è il luogo!",  si mise a leggere la descrizione dell'uccisione di Cesare lasciataci da Svetonio.

La gita fu istruttiva anche sotto altri aspetti: quando il gruppo non precisamente elegante e piuttosto ciabattone di noi studenti danesi visitò il palazzo del Quirinale, un corazziere alto due metri, dritto come una colonna e splendido nella sua elegante divisa - ed evidentemente non abituato a ospiti stranieri in grado di capire l'italiano - esplose: "Madonna, come sono brutti!".

Quando dieci anni più tardi cominciai a lavorare da interprete parlamentare, mi si presentarono diverse possibilità d’incontro con la Roma politica. Una trasferta per il Parlamento Europeo m’offrì l’occasione di lavorare all’interno del maestoso Palazzo di Montecitorio. L’avevo visitato altre volte, ma come è diverso conoscere le chiese nella loro funzione di luoghi di culto o semplicemente come monumenti, altrettanto diverso è trovarsi a  Palazzo Montecitorio da turista oppure esserci con uno scopo preciso mentre vi si svolgono le attività alle quali fu destinato quando nel 1870 i funzionari e la polizia papalini lo sgombrarono e il Parlamento italiano vi fece il suo ingresso. (Che l’interno sia stato molto trasformato agli inizi del ‘900 e che del magnifico palazzo disegnato dal Bernini e dal Fontana non resti molto altro che la facciata, non diminuì  l’impressione che mi fece).

Un viaggio col Presidente del Parlamento danese che doveva partecipare ai festeggiamenti per il cinquantenario della firma del Trattato di Roma, m’offrì l’occasione d’una seconda e più elegante visita al Quirinale e d’una mia personale rivincita sui corazzieri. Percorrendo il lungo e ampio andito che collega la scala principale con la Sala Dei Corazzieri dove li aspettava il Presidente Giorgio Napolitano, gli ospiti passavamo davanti a una fila di corazzieri che erano schierati per tutta la lunghezza dell’andito come dei surdimensionati oggetti decorativi e che, ogni volta che passava qualcuno,  salutavano levando le sciabole e sbattendo rumorosamente tacchi e suole dei loro lucidi stivali.

Il rituale si ripeteva anche dopo, ogni volta che qualcuno passava andando avanti indietro dal salone di ricevimento alle toelette che erano situate vicino alle scale. Confesso che mi ci divertii.

La forte tradizione italiana di inscenare il potere e di circondare i potenti d’ogni genere di visibili privilegi, senza tener conto di quanto possano disturbare le normali attività cittadine, mi si manifestò nel suo splendore quando la delegazione danese lasciò il Palazzo dei Conservatori in Campidoglio, dove il Trattato di Roma a suo tempo venne firmato, per recarsi all’aeroporto Leonardo da Vinci e i Il nostro pullmino-limousine ebbe la scorta non solo di una macchina della polizia coi lampeggiatori accesi ma anche di due carabinieri su due enormi, sfavillanti moto Guzzi blu che ci facevano strada. Così il corteo, senza una sola pausa e con una velocità pazzesca, potè arrivare dal Campidoglio all’aeroporto in soli 20 minuti. Chiunque abbia provato a raggiungere la città dal Leonardo Da Vinci in taxi o in pullman nelle ore di punta sa quanto durerebbe normalmente. Era interessante sedere dentro il pullmino e guardare i due motociclisti che ci precedevano con i lampeggiatori azzurri accesi in cima ai paletti telescopio fissati al sedile posteriore, soffiando ininterrottamente nei loro fischietti e serpeggiando nella strada da destra a sinistra e qualche volta addirittura salendo sui marciapiedi per farci strada. Nei loro movimenti c’era qualcosa di stranamente oscillante al rallentatore – come una specie di balletto sott’acqua – che non diventava meno sorprendente quando i due “centauri” (come gli italiani chiamano i motociclisti) lasciavano il manubrio e gesticolavano per intimare agli altri automobilisti di togliersi di mezzo.

Nel marzo del 1997 mi trovavo a Roma insieme ad Hans Scheving per raccogliere del materiale per un aggiornamento del nostro primo libro su Roma ormai vecchio di dieci anni, ma soprattutto perché Lene ed io avevamo deciso di sposarci in Campidoglio e Hans e sua moglie Maria dovevano farci da testimoni. Fu un avvenimento che consolidò la mia percezione di Roma come la “nostra” città, e che mi diede la possibilità di conoscere, mentre vi si svolgevano le loro normali funzioni quotidiane, alcuni luoghi che avevo conosciuto solo da turista (nel Palazzo dei Conservatori la “Sala Rossa” dove si celebrano i matrimoni) o come luoghi storici (il Palazzo dell’Anagrafe).

Se fossimo stati dei veri romani avremmo trascorso le ore dopo la cerimonia in una limousine noleggiata per farci immortalare davanti ai monumenti più fotogenici della città. Scegliemmo invece d’andarcene a piedi alla nostra meta preferita, Piazza della Rotonda, dove insieme ai testimoni vuotammo alcune bottiglie di spumante in un bar davanti al Pantheon. Non ricordo d’aver mai assaggiato un vino migliore. A differenza d’altri matrimoni ai quali assistetti a Roma, il nostro non comprendeva neppure un enorme pranzo in un ristorante con resti di mura sull’Appia Antica (il cugino Raffaele e Gabriella) o in una villa-albergo con locali di ricevimento a Frascati (la cugina Sara e Guido). Noi facemmo colazione nell’appartamento che avevamo preso in prestito nel quartiere Prati e dove io avevo portato dalla vicina tavola calda qualche bottiglia di vino bianco fresco e una bracciata di vassoi colmi d’ogni genere di delizie romane. La sola cosa che mancò furono i bei sacchetti di tulle o le bomboniere con i confetti e i fiori d’arancio di marzapane, o le figurine d’argento che gli ospiti trovano di solito accanto al piatto nei pranzi di nozze italiani. Ne siamo ancora debitori ai nostri ospiti.

Il pomeriggio lo passammo a telefonare a familiari ed amici a Roma e in Danimarca per dire che era bellissimo essere a Roma, che il tempo era ottimo, che avevamo visto un mucchio di cose e che, fra l’altro, ci eravamo sposati. Per cena, mentre Hans e Maria facevano da babysitter ai bambini,  Lene  ed io ce ne andammo da soli a cena al ristorante Paris in Piazza San Callisto in Trastevere che un conoscente romano ci aveva raccomandato come “il miglior ristorante della città”. In ogni caso era buono e continuava ad esserlo anche quando vi tornammo quattordici anni dopo.

Il destino volle che quel nostro viaggio di nozze mi diede la possibilità di congedarmi da Antonio che morì, all’età di novant’anni, mentre ci trovavamo a Roma. Feci in tempo a visitarlo qualche giorno prima, mentre si trovava in un camerone nell’enorme Policlinico Umberto I, a qualche centinaio di metri da Via Borelli. Nonostante tutte le storie spaventose che si raccontavano di quest’ospedale, benché antiquata la camera dove Antonio si trovava era pulita e ordinata. Era però evidente che diverse funzioni che altrove – non solo in Danimarca ma anche in altri ospedali romani più efficienti – sarebbero state del personale, erano affidate ai parenti del paziente i quali, per esempio, provvedevano alla sua acqua da bere.

 Poco dopo la mia visita, Antonio venne trasportato a casa in via Borelli dove lo rividi il giorno dopo la sua morte. Giaceva, elegante sino all’ultimo, in un completo color sabbia, camicia bianca e cravatta, sul grande letto a due piazze di pesante legno scuro nel quale spesso avevo dormito da bambino. Circondato da familiari e amici aspettava che arrivassero i necrofori col feretro per prepararlo al viaggio a Nuoro dove ci sarebbe stato il funerale, senza prete ma con le bandiere rosse e i discorsi dei compagni di Rifondazione Comunista.

Per le vacanze pasquali di quest’anno 2011, oltre al servizio religioso del Papa in Piazza San Pietro, il nostro programma comprendeva una visita all’antica chiesa di Santa Croce in Gerusalemme dove il Venerdì Santo si espongono dei frammenti della Croce, e le celebrazioni ufficiali della Liberazione, il 25 aprile, che quest’anno coincideva con Pasquetta. Ho notato che negli anni in cui Silvio Berlusconi e la sua coalizione di destra sono stati al potere, le celebrazioni  della Guerra di liberazione e della Repubblica democratica che ne è nata, hanno acquistato una nuova, attuale dimensione. Quest’anno,  tutte le strade di Roma erano tapezzate di manifesti che invitavano all’incontro organizzato dall’associazione dei veterani dell’ANPI a Porta San Paolo dove, il 10 settembre 1943, soldati italiani e cittadini romani combatterono un’eroica ma inane battaglia contro le truppe tedesche che occupavano la città dopo la capitolazione dell’Italia. Su un gran numero dei manifesti dell’ANPI però erano stati incollati degli striscioni – anonimi ma di chiara provenienza neofascista – con l’ironico testo “Buona Pasquetta” e una vecchia fotografia del 1920 che rappresentava un gruppo di manganellatori fascisti su un camion, diretti a un’azione violenta contro i loro avversari politici.

Avrei voluto partecipare all’incontro dell’ANPI ma non riuscii ad arrivarci e decisi perciò d’assistere alle celebrazioni ufficiali del Vittoriano, il grande monumento di marmo bianco all’Unità d’Italia in Piazza Venezia. Era una mattina piovosa, ma la grande piazza era affollatissima di persone venute per ascoltare il  Presidente Napolitano che parlò degli ideali di libertà che furono alla base dell’unificazione d’Italia nell’800 e della guerra di liberazione, e per vederlo mentre deponeva una corona davanti alla tomba del Milite Ignoto e consegnava una medaglia d’oro alla memoria dell’antifascista fiorentino Mario Pucci che nel 1938 venne ucciso dai fascisti perché si rifiutò di fare i nomi di quelli che in città avevano affisso dei manifesti contro il regime.

Napolitano fu applaudito a lungo, mentre vennero lungamente fischiati il ministro degli interni Roberto Maroni, membro della populista, secessionista Lega Nord e il ministro della difesa Ignazio La Russa la cui carriera politica iniziò nel neofascista “Fronte della Gioventù  e continuò nel corrispondente MSI, e per finire nel Partito della Libertà di Berlusconi che non ha mai ha dimostrato un particolare interesse per l’anniversario della Liberazione e per ciò che significa. Una solennità civile che in molti altri paesi sarebbe stata la neutrale celebrazione d’una storia nazionale comune, oggi in Italia tocca molto da vicino l’attualità politica.   

Quando sono a Roma con la mia famiglia, di solito ci incontriamo con alcuni miei vecchi amici d’infanzia: Anna che è insegnante di liceo e Lucia che fa l’avvocato, con i mariti Vittorio che ha una laurea in psicologia sulla personalità dei mafiosi e terroristi pentiti, e Massimo, che è ufficiale dell’esercito (“ Come ho potuto, io, che son sempre stata così di sinistra?” aveva esclamato Lucia annunziandoci d’essersi fidanzata con un ufficiale dell’esercito).

Le due sorelle abitano – in modo tipicamente italiano – a brevissima distanza l’una dall’altra e dalla madre. Qualche anno fa visitai Massimo e Lucia nel loro elegantissimo appartamento a due piani e con una piccola terrazza dove facemmo colazione con la vista sulla confusione di tetti e una foresta selvaggia di antenne televisive del quartiere. In quell’occasione Massimo, che altrimenti è una persona d’idee borghesi moderate, disse che stava cercando di organizzarsi la carriera in modo che fra alcuni anni, quando la loro bambina comincerà le scuole medie, possa chiedere un posto d’addetto militare in un’ambasciata italiana all’estero “perché – come disse – non mi piace l’idea che mia figlia cresca nell’Italia di Berlusconi”.

Quando,  per la pasqua di quest’anno ci incontrammo per un aperitivo al bar all’aperto nella bella Piazza di  San Lorenzo in Lucina, Massimo e Lucia progettavano ancora di prendere la via dell’esilio, ma erano preoccupati perché all’estero sarebbe difficile per Lucia continuare la sua carriera d’avvocato. Una loro zia quasi novantenne aveva però proposto una sua geniale soluzione del problema: lei si sarebbe iscritta al Popolo della Libertà e avrebbe fatto in modo d’avvicinarsi a Berlusconi per potergli fare la festa e liberare l’Italia. “Berlusconi infatti sta facendo una nuova legge – aveva detto la brava vecchietta  – secondo la quale le persone che come lui abbiano superato i 70 anni e non abbiano delle condanne precedenti, non possano essere messe in prigione. Dunque io non rischierei niente”.

“E parlava sul serio!”, commentò il nostro amico l’ufficiale con ammirazione.

 

(traduzione dal danese di Maria Giacobbe)