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Motivazione di Thomas Harder per l’assegnazione del Premio Danese per la Traduzione

Motivazione di Thomas Harder per l’assegnazione del Premio Danese per la Traduzione

Motivazione di Thomas Harder per l’assegnazione del Premio Danese per la Traduzione,

Den Danske Oversætterpris, a Bruno Berni,

Roma, 18. settembre 2009

 

Signore e signori

 

Il Premio Danese per la Traduzione (Den Danske Oversætterpris) viene assegnato come recita lo statuto ad ”un traduttore che si sia distinto per le sue traduzioni dal danese, o ad una casa editrice estera che abbia dimostrato una particolare attenzione verso la letteratura danese”.  Non si corre certo il rischio di sbagliare dicendo che Bruno Berni rientra ampiamente nella categoria. Da oltre 20 anni Bruno Berni è uno straordinario mediatore della lingua, della cultura e della letteratura danesi non solo grazie alle sue numerose traduzioni caratterizzate da una elevata qualità, ma anche in forza di un ampio numero di pubblicazioni sugli autori e sulla letteratura danesi.

 

È difficile immaginare qualcuno più degno di lui di ricevere il Premio Danese per la Traduzione.

 

Ora, non credo che Bruno Berni ne sia al corrente, ma devo confessare che io – e ti prego Bruno di non esserne turbato e di non fraintendermi – io penso a lui quasi ogni giorno.

 

È un fenomeno risaputo che particolari odori possono risvegliare dei ricordi, ma io credo che per molti di noi determinati luoghi abbiano lo stesso effetto. Almeno per me è così. Subito girato l’angolo fuori dall’uscio di casa mia si trova un negozio che ha proprio questa particolarità. Ogni volta che ci passo davanti, mi viene in mente Bruno. Oggigiorno le sue vetrine rivelano l’assortimento di un moderno negozio di eterea ed eterogenea gastronomia internazionale, che offre piatti da asporto dove  la polenta e gli gnocchi convivono con galletti amburghesi in salsa chutney e bacche di aronia, ed anticipano il gateau Marcel o il gelato con crema inglese, per concludersi con una carrellata di formaggi europei ed altre specialità internazionali. Ma quanto sarà? 10? 15 anni fa? Allora quel negozio non era altro che un normalissimo, per non dire un po’ all’antica, macellaio danese che vendeva anche i classici “smørrebrød” e tutto quanto il resto che si addice ad un pranzo danese. In quel negozio entrammo una volta assieme io e Bruno, che si era preso un ritaglio di tempo libero nel suo sempre affollatissimo calendario. Bisogna sapere che quando Bruno è a Copenaghen si divide sempre in quattro tra un costante turbinio di appuntamenti con le case editrici di cui traduce i libri, ed i loro autori, la partecipazione a conferenze di studi, la visita a biblioteche, fiere del libro, ed altri luoghi di letteraria attualità. Ma insomma in questa occasione si era preso un momento libero per pranzare insieme a me e mia moglie a casa nostra. Ricordo, come fosse ieri, la nonchalance e competenza di Bruno mentre sceglieva tra le varietà di insaccati e paté di fegato, affettati affumicati e insalate in maionese, e composizioni di pesci fritti o marinati e molluschi, esposti dietro la vetrinetta del bancone, e che la maggior parte degli altri italiani che ho incontrato, considera una bizzarra accozzaglia di ingredienti, e ricordo anche che mentre discuteva con la commessa e con me se non fosse meglio prendere questo o quell’altro tipo di aringhe marinate o di gamberoni o gamberetti, era evidente che stesse pensando anche a qualcos’altro. Bruno scandagliava … (e qui correggimi se sbaglio, ma sono convinto di quello che dico), scandagliava l’arredamento e l’assortimento del negozio, il comportamento del personale e degli altri clienti, e si annotava mentalmente quei lemmi e quegli stilemi che risuonavano nel negozio mentre facevamo gli acquisti per il pranzo. E sono più che sicuro che provasse anche ad immaginare come avrebbe potuto fare – nel caso in cui i personaggi di un qualche romanzo da tradurre si fossero trovati ad acquistare un pranzo – a trasmettere ad un pubblico italiano, se del caso,  quei particolari esempi di quotidianità danese rappresentati nel negozio, in modo tale da rendere vive per il lettore quelle scene, e per far comprendere sì la vicenda, ma magari anche quello che la scelta o meno dell’uno o dell’altro tipo di combinazione di ingredienti tradisce dell’appartenenza sociale e dello stato d’animo delle persone. Il tutto naturalmente senza che il testo italiano debordi troppo dai confini suggeriti dall’originale danese e senza che ciò che appunto è quotidiano e scontato in un contesto danese, si presenti come un qualcosa che supera, per esotismo, le intenzioni dell’autore. E, peraltro, anche senza indurre il lettore italiano nell’errore di credere che le differenze culturali  tra i contesti italiano e danese siano minori di quanto in effetti sono.

 

Nella traduzione letteraria trasmettere una cultura infatti è altrettanto importante  – e spesso altrettanto difficile – della traduzione lessicale formale e stilistica tra due lingue. Ed è testimonianza della maestria di traduttore di Bruno Berni e della sua impareggiabile conoscenza della cultura danese,  che lui volta dopo volta sia riuscito a rendere intelligibili al lettore italiano i danesi ed il loro mondo. Bruno ha tradotto i romanzi di Høeg – la sua versione del giallo Il senso di Smilla per la neve ha scatenato un pellegrinaggio di turisti italiani, che nel buio e freddo inverno danese volevano vedere i luoghi di Smilla – ed ha tradotto i racconti di Peer Hultberg Vie battute. E Silenzio in ottobre, l’intenso romanzo di un matrimonio di Jens Christian Grøndahl, la biografia romanzata di Henrik Stangerup Lagoa Santa, sul destino del botanico, zoologo e geologo danese dell‘800, Peter Wilhelm Lund, in Brasile. Il grande romanzo di Carsten Jensen La leggenda degli annegati, sui navigatori di Marstal, sua città natale, e le disincantate e sommessamente ironiche descrizioni delle vite che si intrecciano in un quartiere di villette di Copenaghen di Crepuscolo civile di Simon Fruelund – solo per citare una ridottissima serie di esempi del lavoro di Bruno nell’ambito della letteratura danese moderna. Tutte opere che richiedono una padronanza non comune della cultura e della vita dei danesi – di oggi e di ieri, ed in alcune circostanze di nicchie di realtà alquanto particolari. La traduzione del romanzo di Carsten Jensen, ad esempio, deve aver richiesto uno studio approfondito della storia della navigazione e delle tecniche marinare italiana e danese e delle relative terminologie – dalle brigantine e i bompressi ai pantaloni di nanchino, ai cannelli, gli archipendoli e le formaggette. L’universo marinaro è di quelli in cui si riscontra un certo parallelismo tra le varie nazioni d’Europa con tradizioni marittime, cosa che naturalmente, sempre che questi abbia la volontà e la pazienza di approfondire l’argomento, facilita il lavoro del traduttore. Ma quello che ho definito “un certo parallelismo” non elimina sicuramente le differenze. I navigatori di Carsten Jensen si trovano per lo più a bordo di ”skonnerter”, un tipo di imbarcazione presente anche in Italia, dove si usa il termine ”goletta” (anche se in danese si distingue tra vari tipi di goletta, in modi che invece non ritroviamo in Italia), ma a volte si incontrano anche “galeaser”. ”Galease” è un termine che riecheggia l’italiano, e pertanto, si presume, dovrebbe essere abbastanza facile da tradurre. Tant’è vero che il termine danese proviene dall’italiano galeazza, se non fosse che galeazza, purtroppo, è imbarcazione molto più antica e completamente diversa dalla galease danese, che in realtà non ha una sua vera corrispondente in italiano. Il traduttore ha quindi  giustamente scelto di mantenere il termine danese, che oltretutto presenta il vantaggio di non creare difficoltà di lettura e pronuncia alcuna per i lettori italiani. Si sarebbe anche potuto optare per la sostituzione di galease con un tipo di imbarcazione quasi corrispondente, ma così facendo si sarebbe ingenerata confusione nei lettori italiani esperti di cose marinare; e del resto vi è anche una certa usanza consolidata in relazione a tipici modelli di imbarcazione che fa mantenere la terminologia del paese d’origine, come ad esempio vale per cutter e ketch. Potranno sembrare piccolezze, ma chiunque si sia occupato seriamente di traduzione sa quanto lavoro a volte è necessario per poter arrivare a quella che sembra una soluzione così semplice. E quanto sia importante in questo tipo di circostanze prendere le decisioni giuste – cosa che vale in generale e naturalmente tanto più, in testi dove la terminologia di una professione ha un ruolo così importante nell’evocare un universo.

 

Ho appena menzionato un piccolo gruppo di romanzi nuovi o recenti, ma Bruno ha anche tradotto un impressionante ventaglio di classici danesi, da Karen Blixen a “Giovanni” Jørgensen e Hans Christian Andersen per arrivare a colui che viene definito il padre della letteratura danese, il commediografo, satirista e saggista Ludvig Holberg, che visse dal 1684 al 1754. Quattro autori molto diversi tra loro, ognuno esponente di aspetti fondamentali della cultura danese – ed europea – che hanno permesso a Bruno di dare sfoggio di quella padronanza camaleontica della lingua che gli permette di impiantare in ognuno degli  autori danesi una propria voce italiana.

 

Bruno non si è limitato a tradurre una selezione delle opere di Hans Christian Andersen. No, ha tradotto semplicemente l’intero corpus di Fiabe e storie. Questo è sotto tutti gli aspetti un’opera magna di oltre 1.000 pagine, che mostrano un’estrema ampiezza di registro, e per stile e per forma, e tra le quali ve ne sono varie con lunghi brani in versi. Si dice spesso – e giustamente, credo -  che la poesia dovrebbero tradurla i poeti, ma se questa è una regola, allora Bruno è una di quelle eccezioni che confermano la regola. I versi del suo Hans Christian Andersen sono ritmici e rimati, ma senza perdere fluidità e naturalezza ed evitando completamente quella quasi meccanica arbitrarietà o casualità che invece è il rischio sempre in agguato quando si lavora con una lingua che, come l’italiano, per via delle sue desinenze regolari si offre con una tale pericolosa facilità alle rime.

 

La grande raccolta anderseniana è uscita nel 2001. Prima di allora Bruno aveva già curato e pubblicato un’antologia di 60 liriche di Henrik Nordbrandt, Il nostro amore è come Bisanzio, e da allora si è cimentato ulteriormente con la poesia traducendo liriche di Morten Søndergaard, Søren Ulrich Thomsen, e ultimamente la corona di sonetti di Inger Christensen, Sommerfugledalen (La valle delle farfalle). La traduzione della Valle delle farfalle non è ancora ultimata ma alcune parti ne sono già state pubblicate.

 

È una testimonianza del rispetto che Bruno Berni gode come traduttore ed esperto di letteratura danese che egli sia riuscito a far pubblicare un buon numero di poeti danesi su un mercato librario nel quale la poesia non gode certo delle preferenze delle case editrici. Gli editori italiani con i quali Bruno ha lavorato non ne parlano solo come di un traduttore molto bravo ed accurato, ma anche come di una persona – e qui cito un editore – che conosce profondamente la scena letteraria danese, è dotato di una grande sensibilità letteraria ed un entusiasmo per la letteratura che lo rendono prezioso per qualsiasi casa editrice che desideri occuparsi di letteratura danese. Questo suo profilo si vede confermato dalla instancabile attività di consulente per grandi e affermate case editrici come Adelphi, Donzelli ed Einaudi, solo per menzionarne alcune, ma anche per editori minori che pongono altrettanta attenzione alla qualità, come ad esempio Scritturapura. Gli editori non mancano mai di sottolineare la professionalità di Bruno, la grande disponibilità e l’impegno non formale con i quali si presta a rispondere alle loro domande o a chiarire qualsiasi interrogativo.

 

La stessa ricchezza di iniziativa e di impegno disinteressato la ritroviamo nel suo rapporto con i colleghi, che un paio di anni fa gli ha fatto aprire su internet il gruppo di discussione Nazar, dove traduttori da e verso l’italiano e le lingue scandinave possono incontrarsi virtualmente per discutere di questioni tecniche ed aiutarsi a vicenda a risolvere i più disparati problemi di traduzione. La traduzione com’è noto è una professione solitaria, e questa opportunità, di instaurare facilmente un contatto con altri colleghi della stessa area linguistica, è molto preziosa. Il gruppo ha lunghi periodi di massima calma – cosa che accadrà perché tutti sono indaffarati nel loro lavoro, e nessuno è incappato in problemi che non riesce a risolvere da solo – ma di quando in quando si accendono appassionate discussioni su questioni come il significato preciso di questa o quella espressione dialettale italiana, su come fare a far immaginare al lettore svedese  un “capannone”, o da dove deriva una qualche citazione tratta dalla letteratura danese, oppure come meglio rendere comprensibile al lettore italiano un qualche tipo di pappa di cereali o di composta di frutta.

 

I premi per la traduzione sono utili per molti motivi – oltre a quello evidente di far piacere al premiato per il riconoscimento che esso rappresenta, e che spesso manca nel modo in cui i media in genere si rapportano alla letteratura. Premi come il Premio Danese per la Traduzione sono un mezzo per rendere visibile l’importanza che il lavoro del traduttore ha non solo per le persone che ne leggono le traduzioni, ma anche per la lingua, la letteratura e la cultura che esso arricchisce. I premi hanno inoltre l’importante funzione di ricordarci che ci sono grosse differenze nella qualità delle traduzioni che vengono messe sul mercato e servono pertanto a promuovere quei traduttori che riescono a produrre un livello di qualità che non si limita ad essere discreto, ma che rappresenta quel modello al quale tutti i traduttori dovrebbero sempre aspirare. Bruno Berni è uno di questi traduttori  ed è quindi per me un piacere molto sentito avere l’opportunità, a nome della Commissione letteraria del Consiglio danese dell’Arte, di potergli consegnare Den Danske Oversætterpris 2009.